Forme tradizionali e nuovi linguaggi dell’improvvisazione in versi
Una scaletta ragionata
di Antonello Ricci

Si rivela, questo di oggi, un piccolo-ambizioso convegno

Pensavo di dedicare il mio intervento al solo (denso, stimolante) libro di Enrico; ma vale la pena alzare il tiro e ricomprenderlo, il libro, in una più ampia riflessione sui concetti di poesia (ma preferirei: forme della creatività), improvvisazione e comunità

Quest’intervento si dividerà quindi in due parti (certo fortemente interconnesse): (I) riflessioni storiche e teoriche sul concetto di improvvisazione; (II) riflessioni sulle forme creative (improvvisazione compresa) della tribù generazionale

Premessa: parto da una lunga esperienza personale, di rispetto e condivisione, sia coi poeti a braccio (di ascolto attento e partecipe dei loro racconti di vita, delle loro ‘teorie’ estetiche e, ovviamente, delle loro performance) sia coi poeti ‘giovani’ - trovo i loro autoritratti estremamente ricchi di intelligenza e suggestioni ma non intendo accontentarmene, nella convinzione che le esperienze di ricerca e approfondimento possano giovare alla crescita di noi tutti, poeti compresi


I

Partiamo da una prospettiva storica: per lungo tempo l’improvvisazione - nel suo stretto legame con la particolarissima storia della nostra lingua nazionale (lingua letteraria e, in quanto tale, ‘morta’, sarà bene ricordarlo) - Dionisotti a proposito della voga estemporanea settecentesca:

Il fenomeno fu reso possibile da una lingua, com’era la lingua poetica italiana, che per la sua astrattezza e fissità facilmente si prestava a un impiego meccanico e insieme sorprendente…

L’improvvisazione, dicevo, è stata a lungo considerata addirittura come stigma d’Italianità (stereotipo europeo)

Se pensiamo al ’700 (barocco e arcadico poi neoclassicista, ma tenendo d’occhio i successivi innesti di estetica romantica), vediamo che il concetto di improvvisazione si richiama agli stereotipi di ispirazione/entusiasmo/possessione

E si veda lo stress da performance cui molti improvvisatori colti fanno riferimento nei loro versi e testimonianze autobiografiche: si tratta d’una vera e propria sintomatologia patologica - penso a Luigi Cicconi, erede dell’aretino Sgricci (che fa anamnesi d’un certo saturnismo connotativo della psicologia dell'improvvisatore):

Una smania interna ch’io non spiegava, una tormentosa impazienza di cangiar soggiorno, un desiderio acuto di far tregua ai miei improvvisi che da qualche tempo mi turbavan la salute agitandomi i nervi, e rendendomi stizzoso e biliare…

Ma anche al Metastasio:

Dannoso, perché la mia debole fin d’allora e incerta salute se ne risentiva visibilmente. Era osservazione costante, che, agitato in quella operazione dal violento concorso degli spiriti, mi si riscaldava il capo, e mi s’infiammava il volto a segno maraviglioso, e che nel tempo medesimo e le mani e le altre estremità del corpo rimanevan di ghiaccio…

A segno maraviglioso… Qui in particolare interessa il sentimento fortemente ambivalente (vogliamo spingerci fino ad ambiguo?) testimoniato dai giudizi degli intellettuali italiani (e non) sul fenomeno dell’improvvisazione: fascino vs diffidenza (fino alla repulsione e alla condanna vere e proprie) - Si pensi al celebre sonetto dedicato da Alfieri ad Amarilli Etrusca. Poi

Metastasio: quell’inutile e maraviglioso mestiere

Giordani: ludus impudentiae - un romor vano di chi nulla dice

Carducci: dio scampi chiunque abbia buono stomaco (anche se in questo caso pare proprio che Carducci ce l’abbia, più che altro, col Tommaseo - ma questo sarebbe tutt’altro discorso)

Ancora Carducci, sul Gianni:

Specie di mulo nato dall’incrociamento della giumenta Arcadia con l’onagro Ossianismo nella frega dell’enfasi rivoluzionaria…

Qualche elemento di riflessione e approfondimento in questa direzione:

* la ricorrente messa in dubbio della genuinità del comporre ex abrupto (vero e proprio topos: Si pensi agli alibi di Giuseppe Rosi da Visso e ai pugni di Giandomenico Pèri da Arcidosso)

Quando questa domanda la fanno a me (‘ma improvvisano veramente… oppure…’) sorrido, ma non è così facile rispondere/convincere

Mi piace a questo proposito sottoporre alla vostra attenzione una definizione di improvvisazione ripresa da Il libro del jazz di Joachim Berendt (altro ambito, certo, altre questioni). Al primo punto della sua definizione il critico tedesco annota:

L’improvvisazione equivale a ciò che è stato elaborato attraverso l’improvvisazione…

Non sembri un bisticcio di parole. Poco sopra Berendt aveva scritto:

Evidentemente fa parte dell’improvvisazione ciò che è stato ‘elaborato in più improvvisazioni’ e che poi, dopo essere stato elaborato in una forma che si è rivelata buona, viene ripetuto…

Non un’opera finita, portata a compimento/perfezione, insomma, ma una sorta di laboratorio artigiano permanente

Poi

* la diffidenza degli improvvisatori a lasciarsi trascrivere-stenografare in ‘presa diretta’ (si pensi al Perfetti ma anche all’ironia deittica della Bugelli nei confronti del Tigri: si veda più sotto il ‘blasone’ della Velocità)

* d’altro canto, anche negli estemporanei più legati all’effimero della performance, si manifesta a un certo punto della carriera l’ansia di un riconoscimento legato a composizioni meditate, ‘a tavolino’ (si vedano ancora il Gianni e Teresa Bandettini, alias Amarilli Etrusca)

* la poco convincente estetica della Velocità compositiva (intesa come valore in sé), motivo di vanto e vanagloria da parte di molti improvvisatori; si ripensi al giudizio durissimo del Giordani (giudizio che avrebbe fatto storia e scuola):

Diciamo assolutissimamente e in ogni maniera impossibilissimo parlare di ogni cosa, improvviso, e bene…

Nelle quali [arti belle, a.r.] il bello è tutto; il presto è nulla…

* nonché l’estetica del ‘bernoccolo’ (stereotipo natura vs cultura, risolto dai poeti, con apparente professione di fede ‘spontaneista’, a tutto vantaggio della prima)

Un giudizio severo quanto ineludibile è quello del Metastasio (per la profondità delle cose che scrive e per l’esperienza vissuta dal cui punto di vista egli ragiona) - vale la pena soffermarcisi:

Poiché riflettendo in età più matura al meccanismo di quell’inutile e maraviglioso mestiere, io mi sono ad evidenza convinto, che la mente condannata a così temeraria operazione, dee per necessità contrarre un abito opposto per diametro alla ragione. Il poeta, che scrive a suo bell’agio, elegge il soggetto del suo lavoro; se ne propone il fine; regola la successiva catena delle idee, che debbono a quello naturalmente condurlo, e si vale poi delle misure e delle rime, come d’ubbidienti esecutrici del suo disegno. Colui all’incontro che si espone a poetar d’improvviso, fatto schiavo di quelle tiranne, convien che prima di rifletter ad altro, impieghi gl’istanti che gli son permessi a schierarsi innanzi le rime che convengono con quella che gli lasciò il suo contraddittore, o nella quale egli sdrucciolò inavveduto, e che accetti poi frettolosamente il primo pensiero che se gli presenta, atto ad essere espresso da quelle benché per lo più straniere, e talvolta contrarie al suo soggetto. Onde cerca il primo a suo grand’agio le vesti per l’uomo, e s’affretta il secondo a cercar tumultuosamente l’uomo per le vesti…

… N’è ancora [il poeta, da questa inumana angustia, a.r.] in contraccambio validamente protetto contro il rigore de’ giudici suoi, a’ quali abbagliati dai lampi presenti, non rimane spazio per esaminare la poca analogia, che ha per lo più il prima col poi in cotesta specie di versi. Ma se da quel dell’orecchio fossero condannati questi a passare all’esame degli occhi, oh quante Angeliche si presenterebbero con la corazza d’Orlando, e quanti Rinaldi con la cuffia d’Armida!

Sembrerebbe così cassata l’improvvisazione. Una volta per tutte. Ma è Metastasio stesso a rimettere in dubbio la questione, in chiusura della sua lettera all’Algarotti:

Non crediate però, ch’io disprezzi questa portentosa facoltà, che onora tanto la nostra spezie…

Concludendo:

* è fuorviante ogni appiattimento della performance sul testo trascritto (pregiudizio dettato da un’impostazione, diciamo così, letterata): occorre un canone ‘orale’ e cantato (che tenga conto, sì, del sincretismo estetico peculiare dell’universo-improvvisazione, dei rapporti di contaminazione reciproca tra oralità/scrittura e tradizione letteraria, ma anche della maestrìa esercitata sul tempo dal poeta estemporaneo: magistrali, in tal senso, gli studi di Maurizio Agamennone)

* l’arte agonica del contrasto sembra più assimilabile a ‘prodromi’ di teatralità che non letterari stricto sensu (contesto performativo, ruolo dei deittici, gioco dei poeti a entrare dentro/fuori il personaggio), teatralità non di rado intensamente coinvolgente, spettacolare

* infine, per chiunque abbia consuetudine con l’improvvisazione è comunque indiscutibile come nell’ambito del genere-contrasto i bravi poeti sappiano ‘ragionare’ in versi - con esiti sempre divertenti, non di rado acuti, a volte perfino belli (certo il rapporto verso/interiorità resta altra cosa)

Ecco quindi il motivo per cui, dopo tanti anni, mi piace ancora ascoltare i poeti, gustarmi un po’ d’improvvisazione


II

Generalmente diffido degli accostamenti ‘spudorati’ (falsi fratelli analogici che possono rivelarsi somiglianze stucchevoli, tutte di superficie)

Nel titolo di quest’oggi, si affronta una coppia di concetti assai ‘illustre’ nel ’900: tradizione/sperimentazione

Enrico, come ho già scritto nella mia intro al libro, giovane poeta della tradizione ma anche poeta giovane (della tribù generazionale)

Enrico è figura interessante perché d’inatteso crocevia: vive entrambi i ruoli e il suo libro (così concepito) è libro intrigante: in quanto di tale contaminazione dà conto bene

Del ruolo del poeta nella comunità tradizionale parla Corrado (più facile identificarla, se vogliamo)

Io cerco di capire a quale comunità possano invece riferirsi/appartenere i versi sciolti e liberi di Enrico…

Più sottovalutata, più intrigante

È la tribù generazionale (trasversale e ‘delocalizzata’): classe nata nel segno del dio consumo, ceto di pubblico-mercato, sorto nel repentino tramonto della civiltà premoderna; perdonate la ‘provocazione’: non c’era traccia di gioventù nel mondo contadino (frattura e contrapposizione là dov’era stata continuità, discontinuità là dov’era stata tradizione - il discorso sui saperi e sull’apprendistato)

Immancabile Pier Paolo Pasolini:

Una sola cosa comprendo: che sta per morire
l’idea dell’uomo che compare nei grandi mattini
dell’Italia, o dell’India, assorto a un suo piccolo lavoro,
con un piccolo bue, o un cavallo innamorato di lui, a un piccolo
recinto, in un piccolo campo, perso nell’infinità di un greto o una valle,
a seminare, o arare, o cogliere nel brolo vicino alla casa
o alla capanna, i piccoli pomi rossi della stagione
tra il verde delle foglie fatto ormai ruggine,
in pace… L’idea dell’uomo… che in Friuli…
o ai Tropici… vecchio o ragazzo, obbedisce
a chi gli dice di rifare gli stessi gesti
nell’infinita prigione di grano o d’ulivi,
sotto il sole impuro, o divinamente vergine,
a ripetere a uno a uno gli atti del padre,
anzi, a ricreare il padre in terra,
in silenzio, o con un riso di timido
scetticismo o rinuncia a chi lo tenti,
perché nel suo cuore non c’è posto
per altro sentimento
che la Religione.

Leggendo i versi di Enrico: ricorrente rifiuto della rima in chiave strofica, ma attrazione ‘fatale’ per parallelismi (anafore insistite, per esempio), paradossi, bisticci paronomastici ecc. - spesso in eccesso seriale, quasi ‘ideologico’ (abuso?) di applicazione

Procedimenti il cui più immediato riferimento sono: (1) le scritture ‘spontanee’ studentesche, (2) le scritte spray sui muri delle città, (3) ma anche i ‘pezzi’ di writing (professione-professore a parte, mi sono trovato a lungo a frequentare queste realtà espressive)

Certo, voi risponderete che la poesia praticata come tale implica altri livelli di consapevolezza (di contenuti e formale), e io risponderò che sono pienamente d’accordo ma che (jakobsonianamente) la contiguità strutturale è altrettanto innegabile (si tratta semmai di differenza nella gerarchia delle funzioni)

Un esempio ravvicinato. L’antimetabole (o antimetatesi). Definizione

Ripetizione di una frase con l’ordine delle parole invertito (‘muto contro, inverto’)…

Isidoro: “Antimetabole est conversio verborum, quae ordine mutato contrarium effecit sensum”…

Insomma: una frase viene ripetuta ri-disponendone a chiasmo gli elementi-chiave fino a rovesciarne il senso complessivo di partenza. Quante ne ho intraviste in pagine di diari, sui muri di aule e di cessi, su banchi di scuola, su vagoni ferroviari, su muri urbani…

finché
la violenza borghese si chiamerà giustizia
la giustizia proletaria si chiamerà violenza

Anche qui: mentre ci viene somministrato un autoritratto generazionale nel segno d’una estetica spontaneista, la tribù-giovane pratica nei fatti un culto per l’uso manierato, artificioso del linguaggio (interessante la bottega-laboratorio dei writers, a questo proposito)

In questo non lontana, la tribù, dal fascino proprio dei poeti a braccio per la complicazione letteraria. Quasi a prescindere dai contenuti. Bontempelli:

È curiosissimo vedere come in questi spiriti semplici il virtuosismo eserciti un fascino più potente che il desiderio di trovare immagini e pensieri. La complicazione esteriore, che la poesia culta ha ripudiato del tutto perché per essa era diventata un elemento di aridità, li appassiona come una forza bruta da vincere, come una radice dura da sterpare, come una roccia da fendere. Questa loro passione ingenua toglie all’esercitazione ogni aspetto d’artificio, e vince subito anche noi, solitamente tanto diffidenti verso le abilità di questo genere…

Come in una perpetua infanzia della poesia in cui il gusto della sperimentazione e l’autocompiacimento combinatorio prevalgano sulla urgenza (tutta moderna e borghese) di esprimere contenuti ed emotività

Tra l’altro: proprio come per le filastrocche e le conte infantili sembra r-esistere per il ‘poetese’ generazionale una ‘tradizione orale’

Con una perdita, però: laddove quella dei poeti a braccio restava (e resta) una Lingua (‘discesa’ ma pur sempre Lingua), quella di rappers & co. Si pone piuttosto come Gergo





















FABIO MUGNAINI


Avevo immaginato quando abbiamo iniziato a parlare di questa iniziativa con Edo Galli, la possibilità di proporre una contaminazione, con tutti i rischi del caso, tra celebrazione o evento che rimetteva insieme la comunità dei poeti estemporanei e degli improvvisatori della tradizione, con un altro soggetto che era abbastanza sfuggente, tanto che poi si è materializzato, credo, in maniera abbastanza imprevista in questo luogo. Questo soggetto era costituito da quell’interlocutore che probabilmente rimane spesso lontano rispetto alle nostre iniziative. La cosa è partita da una programmazione dell’Archivio Tradizioni della Maremma e solitamente in quella istituzione noi non incontriamo la gioventù maremmana di oggi, non incontriamo i ragazzi di Grosseto; mentre da quella istituzione partono prevalentemente delle iniziative che hanno l’enorme merito di salvaguardare, valorizzare, etc., ma che sembrano rivolgersi al passato. Ora, il problema è che tutto quello che viene dal passato, risulta al vissuto contemporaneo, si presenta con una limitazione. Il passato chiede a queste tribù generazionali (è una bella provocazione quella lanciata da Antonello Ricci) a questi ragazzi che noi rinchiudiamo, o che lasciamo rinchiudere nella loro dimensione para/tribale o pseudo/tribale, in virtù della loro generazione, noi stiamo in qualche misura negando un diritto di cittadinanza, perché la generazione passa, il dramma è che la generazione passa, e non c’è niente di peggio che trovarsi vecchi rispetto alla generazione nella quale ci si è identificati, e senza trovare un territorio che ci accolga.
Dal punto di vista dell’istituzione, se da una parte bisogna consolidare questa rinnovata attenzione a delle forme della tradizione popolare, dall’altra bisogna preoccuparsi, secondo me, di creare dei ponti; l’incontro tra il poeta estemporaneo che coltiva la sua fedeltà all’ottava rima, ed il ragazzo che per la prima volta, rivede o ripensa per esempio a quella natura ritmica che si nasconde dentro la costruzione della poesia, di poesia si tratta che va sotto il nome di rap, o di talkhing, o di altra categoria che possa aver creato, questo incontro deve prodursi perché il ragazzo di Roma, il ragazzo della provincia “enne” del nostro paese, possa sentirsi erede di una tradizione importante, possa sentire che questo suo dedicarsi ad una scena che di solito è preclusa allo sguardo delle altre generazioni, io non penso di vedere mio figlio semmai dovesse fare l’improvvisatore, improvvisare in un palco, perché questa non è nella logica di quel tipo di performance, per scontato fa parte di quel gioco, fa parte di quei valori che la comunità generazionale si riconosca anche contro le altre generazioni, ma le altre hanno il dovere di ritenersi e di considerarsi costantemente aperte.
L’idea di far partire questa possibilità di contaminazione e di incontro fra mondi che solitamente non si guardano e non si pensano, mi sembra che si possa difendere tanto più oggi che a differenza di quanto accadeva 20 o 25 anni fa, la poesia di improvvisazione gode di una riconosciuta autorevolezza, gode di un riconoscimento sociale, gode di una attenzione, ha la sua stampa, ha i suoi cultori, ha i suoi critici, ha i suoi estimatori che non avrebbero nessun dubbio a mettere sulla bilancia un verso di Montale con un’ottava sentita a Pomonte, quindi in questo momento quella poesia non è a rischio, e siccome oggi quella poesia sta vivendo un momento particolarmente felice è ora che bisogna fare questa operazione di apertura, cioè, è come se il massimo rischio un’impresa deve correrlo in due circostanze: quando sta per morire, e allora ci si abbraccia con il primo che capita, o quando si è veramente molto ricchi; in questo momento nel nostro paese ho l’impressione, e soprattutto nella nostra provincia, che questo dislivello tra ricchezza e povertà, tra ricchezza in termini di riconoscimento sociale e legittimazione, ascolto, attenzione e povertà intesa in termini di marginalizzazione, sia abbastanza riconoscibile in queste due frange del far poesia; sappiamo quali sono stati gli spazi per esempio anche alla divulgazione che si sono aperti per la poesia di improvvisazione, mentre per quest0altro fronte attira ragazzi e ragazze verso l’esercizio della magia della parola, che suggerisce loro che c’è una strada percorribile per socializzare questo vissuto interiore complicato, fatto anche di retorica, di valori assoluti. Antonello faceva riferimento ai diari degli studenti delle scuole superiori sono meravigliosi: ci sto lavorando, abbiamo avuto delle tesi in proposito, e in questi diari si scoprono dei vissuti che sembrano essere sull’orlo del suicidio un giorno sì e un giorno no e nel giorno di mezzo sono in estasi, sono nel paradiso. Ecco, allora questo vissuto profondamente complicato delle nostre adolescenze non ha nessuna via di ascolto e di socializzazione oltre la generazione se non quella precostituita dal mercato. Cioè la via di uscita dei rappers dalla dimensione dell’autoascolto si riproduca quando l’improvvisatore o il poeta o il bravo musicista viene catturato dal mercato e diventa un'altra cosa, perché Jovanotti è un’altra cosa, Neffa è un’altra cosa. Nelle discussioni io per motivi generazionali, per motivi di scelta professionali, per motivi estetici, non sono un appassionato di musica rap, però ho cercato di documentarmi nei siti, cioè questi luoghi di discussione virtuali che si rendono disponibili a chiunque, e lì si capisce che all’interno della stessa comunità, il successo presuppone un cambiamento di significato, è come se il giovane che viene fortificato dal mercato, che riesce a lanciare il suo cd, entri un'altra dimensione, e quindi si perde. Questo elemento è invece ancora l’elemento che contraddistingue il versante della poesia di improvvisazione. I nostri poeti, sono poeti che non hanno, se da una parte è vero che ogni poeta coltiva l’ambizione di lasciare il segno della propria poesia, cioè di lasciare la scrittura poetica, e questo probabilmente è anche una trappola abbastanza inevitabile quanto mortale per la vitalità della poesia di improvvisazione; se ogni poeta coltiva questo sogno non credo però che si possa dire che anche i poeti che hanno avuto una più ricca vicenda di riconoscimenti sociali, che sono passati in televisione, abbiano mai sentito questo come un passare verso un altro mondo.
C’è sicuramente un piano di patrimonializzazione della tradizione dell’improvvisazione poetica, che però non si è ancora caratterizzata come merce, non è diventata oggetto di promozione commerciale e fenomeno di promozione di pratiche di consumo, come invece succede con la generazione hip-hop, con i ragazzi che seguono il rap. In quel caso per esempio, si produce una sorta di solidarietà di tipo estetico che mette insieme un altro atteggiamento corporale, una scelta nel codice sociale dell’abbigliamento, una gestualità, un uso dei propri strumenti comunicativi legati al corpo, che va di pari passo con le scelte di costruzione poetica, cioè il ragazzo che viene attratto da questo fare poesia moderno, che gli si attaglia generazionalmente, è inevitabilmente portato anche ad associare a questa passione delle forme di consumo di tipo diverso, delle forme di consumo che molto spesso li portano a segnalare una sorta di estraneità ai codici correnti.
Quindi la poesia tradizionale tende ad essere una poesia ascoltabile da tutti, quella poesia che si esprime con il ritmo e con la violenza di certe immagini tende a proporsi come una poesia contro quelli che non la condividono, contro quello che non l’ascoltano, contro quelli che non la praticano. Per esempio una cosa che colpisce è il livello di oltranza, il livello di oltraggiosità, di licenza che ci si prende con il linguaggio. Se prendiamo una delle raccolte delle tenzoni poetiche dei nostri improvvisatori, compresi quelli presenti, ci accorgeremo per esempio che anche l’aggressione verbale ad una figura o ad un concetto odiato, difficilmente oltrepassa il livello della buona decenza, mentre se si va a vedere una delle tante gare di improvvisazione “tutti contro tutti” sui siti dei rappers italiani, ci si accorge che dopo qualche tentativo di tenere il discorso su un altro piano, il primo interlocutore entra di soppiatto, fa sgambetto e scarica una valanga di offese che chiamano in causa attività sessuali della madre e dei parenti vari. Tutto questo in una dimensione di volontà di usare un linguaggio più forte che c’è, che non significa offendere, significa volontà di trasgredire i limiti della decenza linguistica, i limiti del dicibile.
Tutto questo chiama, nel nostro caso l’istituzione ATPN più che l’Università, ad interrogarsi da quale parte dobbiamo far pendere il nostro interesse e la scelta che si fece con Edo galli fu quella di far pendere l’interesse verso una possibilità di contaminazione, che non significa chiedere ai poeti in ottava il sacrificio di passare a quelle altre forme che non sono meno tecniche, non sono meno aggredibili dal concetto della natura formulaica della loro costruzione; anche i ragazzi che improvvisano sulla base dei ritmi rap stanno semplicemente in molti casi riutilizzando delle formule, ma questa ossessione nei confronti della naturalità o della tecnicità della poesia, anche questa fa riferimento ad un sistema di valori che, se vediamo le cose da più punti di vista, a noi ci sembra innaturale a artificiale; quale è il sistema di valori a cui fa riferimento, esiste una poesia non tecnica? No, la poesia è arte della parola, che la scriva Montale, o Ungaretti, Luzzi, Ricci, la scriva io che non ho mai scritto poesie, poesia è tecnica della parola, non esiste una parola naturale, la parola naturale è un verso, ma un verso animale, la parola è linguaggio, la parola è costruzione consapevole di immagini.
Ed allora quale è quella verità che è stata sottratta alle sue vere manifestazioni, non c’è una vera poesia autentica che sgorga a cui contrapporre una poesia tecnica. Esiste una poesia che si è arrogata il valore sociale di poesia, e ha degradato le altre a poesie tecniche, ed allora le altre sono state degradate appunto a mero gioco di assonanze, privo di significati; il “meraviglioso” è un bellissimo concetto, ma è anche un concetto pericoloso perché meravigliosi erano i caravanserragli. La poesia è vera quando incontra il consenso della comunità di riferimento. In molti casi la comunità a cui fa riferimento la poesia orale è una comunità di minoranza, ma che si muove dentro contesti che non sono spariti, ma l’errore più grave che possiamo fare è immaginare la comunità tra la poesia che sentiremo riecheggiare tra qualche minuto e quella che si sentiva trenta, quaranta, cinquanta anni fa. Perché è un inganno? Perché noi siamo a goderci il fresco sotto l’ombra delle piante, questo fresco è un elemento di lusso e se non stiamo attenti a sottolineare anche nelle forme di recupero delle tradizioni questi elementi di discontinuità, rischiamo di dare ai nostri ragazzi un’impressione totalmente fallace, che la mezzadria o il passato al quale si rifanno i poeti che improvvisano fosse un posto piacevole, frequentato da persone che sanno cantare di poesia, che sanno elevare gli animi ad un consumo estetico, culturale, alla bellezza, che tutto sommato stavano in ambienti gradevoli. Ma non era così. Allora questo tipo di discontinuità è difficile trovarla fin quando ci si muove pensando ad un solo modo di fare poesia, ed allora la tecnica antropologica per creare le evidenze è quella di contrapporre degli elementi che sono lontani.
Un’ultima cosa sul libro di Enrico Rustici che ho letto con molto interesse e con molto piacere.
Condivido assolutamente e senza riserve, soprattutto la parte in cui Antonello Ricci invita Enrico a pensare che si è poeti senza aggettivi: o si è poeti o si è poeti, e si può essere poeti in tanti modi, ma secondo me in questo libro diviso in due Enrico ha sperimentato almeno due fondamentali modelli di essere poeta: l’uno è il poeta che canta per il “maggio”, il poeta che improvvisa per la collettività, il poeta che costruisce poesia dialogando, ed è la poesia che fa società, è il poeta che rinuncia a quelle libertà che si danno al poeta introflesso, e decide di prestare la sua voce, la sua mente, la sua capacità di composizione per dar vita ad un immagine che è condivisa; quello è il poeta che si ascolta più che leggere, poiché è quel poeta che dice la sua arte poetica con il suo viso, con il suo corpo, con la musicalità che ci mette, e quella poesia è bella da sentire e non è da leggere. Ecco quale è la trappola che aspetta tanti poeti, perché quando il poeta che ha improvvisato lascerà sulla pagina le proprie cose, la pagina ha delle verità che non collimano con le verità della performance; la pagina riproduce tutti i nei, tutte le imperfezioni che si produco inevitabilmente improvvisando, e che invece vengono riassunte attraverso quell’unità inscindibile di corpo, di voce, di presenza scenica, nel momento della performance.
Allora quello è il poeta, il poeta nostro, il poeta rispetto al quale ognuno può dire “io ascolto Chechi, Altamente Logli, Niccolino Grassi, ascolto i giovani…” perché in questo modo mi riconosco attraverso la loro voce in una collettività; il poeta della poesia che si scrive, questo è il poeta che si legge di notte, è il poeta che scrive poesie che non si leggeranno di fronte ai propri genitori, male se fosse così. Questo secondo poeta è un poeta più libero, però è un poeta più solo.
La scelta, Enrico, in questo momento l’ha semplicemente rinviata ed è probabile che non sia una scelta riconducibile ad una alternativa secca: si può essere l’una e l’altra cosa, ma non forse simultaneamente, non insieme.
Fra le libertà che si riconoscono al poeta forse non c’è quella di prescindere da questa scissione interiore.













Intervento di Francesco Burroni


Due parole innanzitutto per dire perché mi trovo qui e da cosa nasce il mio interesse per le tradizioni popolari e l’arte estemporanea.
Vengo da Siena (la città del Palio ma anche di Bernardino Perfetti tanto per restare in tema di poesia estemporanea) e ho avuto la fortuna di frequentare fina da bambino l’ambiente della Contrada (la mia è l’Oca) e tra le tante altre cose che ho imparato ho cominciato lì a cantare unendomi ai cori dei più grandi... e raccattando anche qualche scapaccione nei momenti di maggiore stonatura. Poi il ’68 con il suo amore per la cultura popolare e in particolare, per quello che qui ci riguarda, il mitico (o mitizzato) mondo dell’osteria (o vinaio per dirla alla senese) frequentato da popolani, anarchici, goliardi ecc.. Il repertorio dei canti senesi da osteria è stata infatti anche la mia tesi di laurea. Dall’altro versante la mia passione che poi è diventata ben presto professione per il teatro in generale e per quello di improvvisazione particolare. Il naturale incrocio di questi due mondi è stato per me nel ’93 al podere di Pianizzoli dove per merito dell’indimenticato Lio Banchi ho conosciuto e cominciato a praticare l’ottava rima e ho preso a frequentare per amicizia e per lavoro tanta gente della Maremma e tra tutti cito Mauro Chechi e il “vostro” Enrico Rustici (oggi giustamente premiato) nonché le varie associazioni come la LIPE o il “Galli Silvestro”.

La prima cosa che vorrei comunicarvi da persona di spettacolo è la grande vitalità e attualità dell’arte estemporanea in moltissime forme che vanno dal più noto jazz, al teatro (pensate che il “Match d’improvvisazione teatrale” al quale da anni lavoro è ad oggi lo spettacolo più rappresentato al mondo), alla danza contemporanea e non ultima alla poesia.
Sia chiaro che nel nostro caso si parla sempre di improvvisazione non come studio e ricerca ma come momento effettivo di rappresentazione dal vivo.

Ormai sappiamo che ci sono dei valori apprezzati dal pubblico e condivisi tra gli artisti che si occupano, professionalmente o meno, di improvvisazione:
per il pubblico c’è la bellezza di assistere non solo ad uno spettacolo vero e non prefabbricato ma di poter partecipare all’evento creativo proprio nel momento in cui nasce... lì sotto i loro occhi... è come se entrassimo nella bottega di Leonardo e vi trovassimo la Monna Lisa in posa.
Per l’artista c’è la bellezza di poter mettere in moto la sua fantasia non solitariamente nel chiuso del suo studio ma già in rapporto agli altri (il pubblico e gli artisti in scena con lui). C’è la bellezza di trovarsi ogni volta davanti ad una pagina bianca con la consapevolezza che lui avrà la capacità di scrivere... ogni volta un salto nel vuoto che può far venire le vertigini o far nascere la voglia di volare.
C’è la consapevolezza, ma anche l’onere, di essere al contempo attori, autori e registi dello spettacolo che si sta svolgendo. C’è una grande indispensabile solidarietà e voglia di collaborare con gli altri che rende i rapporti tra gli artisti che improvvisano in qualche modo più forti e più solidali.

Certo ci sono anche dei rischi connessi all’improvvisazione. Il principale credo sia quello di doversi limitare a fare sempre degli “schizzi”, degli abbozzi senza aver mai troppo tempo per entrare nei dettagli, nelle sfumature e per questo penso sia indispensabile per ogni attore o poeta estemporaneo o jazzista coltivare parallelamente anche la scrittura e la composizione: i due mondi (quello definito con calma e quello improvvisato) si alimenteranno a vicenda. Ma credo di non insegnare niente a nessuno dato che proprio qui si presenta il libro di poesie di Enrico.

Bisogna però anche accettare gli apparenti “limiti” connessi strutturalmente all’improvvisazione: se da una parte infatti non si potrà mai arrivare (se non raramente) a lavorare su sfumature e dettagli dall’altro lato potremmo sicuramente godere della bellezza di un qualcosa che vive di grande vitalità e magari anche di ingenuità, ma che trae la sua fondamentale forza dall’essere in rapporto... con quell’artista... con quel pubblico... in quel momento preciso e non più. Insomma l’improvvisazione è l’arte del “Qui e ora”, non ha passato e quasi sempre non ha nemmeno futuro. E’ come (mi si perdonerà la forse banale citazione) quel noto “ho scritto t’amo sulla sabbia” con il quale ci deliziavano negli anni ’60 Franco I e Franco IV.
Dunque l’arte estemporanea ha bisogno di una sua “lettura” che non potrà mai essere la stessa dell’arte “definita”.


Sull’improvvisazione in versi, tema principale delle riflessioni di stasera, da sempre mi domando: è arte? è solo gioco?
Tutto farebbe pensare che in epoca contemporanea con lo sviluppo che ha avuto storicamente il linguaggio poetico (e in particolare con l’abbandono progressivo di rima e metro) la poesia in versi, improvvisata o no, sia superata e che il verso libero renda meglio le emozioni umane. Tutto lo lascerebbe pensare e in effetti lo penso un po’ anch’io e vedo che i meccanismi creativi della creazione in “strutture chiuse” come ad esempio la nostra ottava portano spesso ad un atteggiamento più razionale e “matematico” del poeta che si deve barcamenare a trovare rime e a incastrarle nel telaio dell’ottava. Dunque per me improvvisare in rima è piuttosto un gioco mentre affido al verso libero le mie esternazioni-composizioni più irrazionali. Ma poi mi domando se gioco e irrazionale non siano in realtà fortemente connessi tra di loro e se il gioco non sia anzi il naturale complemento di ogni attività creativa dell’essere umano. Scendendo nel pratico: se invitate una bella donna a cena magari oltre che a superbe dichiarazioni d’amore proverete anche a farla ridere e magari scoprirete (molte donne lo confermano) che con una risata otterrete più che con tanti voli pindarici.

Due ultime parole per parlare della formazione legata all’arte estemporanea. E’ ovvio che la mia esperienza sull’improvvisazione teatrale mi porta a dire che i codici e gli strumenti dell’arte estemporanea sono assolutamente trasmissibili, ne sono una prova i nostri mille allievi che ogni anno in una ventina di città italiane seguono i corsi sul match... per non parlare dell’estero ovviamente o delle scuole di jazz o di danza di improvvisazione.
Mi pare strano che quando si parla invece di ottava rima tutto diventi più difficile e sembra che ci stiamo addentrando in un terreno impraticabile. Sembra che senza il contatto diretto con il mondo contadino della Maremma e un rapporto di apprendimento diretto niente sia possibile... ma non tutti hanno avuto la fortuna di nascere in questa terra e di avere grandi poeti a portata di mano ma è anche vero che molto sono attratti da questa arte pur abitando lontani da questa bella terra. Collaboro da tempo con il gruppo che fa capo a Giovanna Marini e vedo come la possibilità di insegnare e “passare” forme artistiche della tradizione popolare siano stati affrontati e con successo da molti anni. Mi riferisco in particolare alla “Scuola popolare di musica di Testaccio” a Roma dove da sempre si insegnano canti popolari, organetto, ciaramelle ecc..
Quando negli anni scorsi ho portato “scolaresche” di allievi di improvvisazione teatrale a cena a Pianizzoli avendoli preparati un po’ anche sotto il profilo tecnico ho visto che i risultati, anche solo di interesse e di curiosità, erano ben diversi da quelli dell’ “ignaro turista” che magari arrivava armato di registratore ma che alla fine aveva preso ben poco. Certo se oltre alla preparazione “tecnica” c’è anche il “bagno purificatore” con i poeti della maremma meglio ancora... ma perché questo non dovrebbe essere possibile?
Insomma si insegna il “match d’improvvisazione teatrale”, si insegna la Commedia dell’Arte, si insegna il jazz si dovrà pur poter insegnare l’improvvisazione in versi. Probabilmente manca una riflessione sui meccanismi didattici forse anche perché manca un ‘esperienza didattica e magari su questi aspetti potremmo e dovremmo concentrarci nel futuro... ma questo è argomento per un altro convegno... adesso ci aspettano crostini e affettati.... grazie dell’attenzione.


















Intervento di PIETRO PIMPINELLI

Intanto lasciatemi dire che sono rimasto estasiato dal Prof. Ricci. Quando vado in macchina, spesso mi faccio delle domande sulla poesia estemporanea: come è nata, quando è nata…; Ricci è entrato dritto nei concetti, riportando documenti, davvero bravo. Troverà sempre una camera d’albergo gratis a Braccagni con l’aria condizionata, ci penserò io.
Ora volevo testimoniare l’esperienza che ho avuto io.
Purtroppo ora per motivi di lavoro sono lontano dal mondo della poesia.
Riparto dal concetto che “se non c’hai qualcosa di mamma non canti di poesia”. Questo è un punto fondamentale sul quale si dovrebbe, secondo me, discutere perché sono convinto che negli anni passati, parlo del primo novecento, non c’era una cultura media molto diffusa come ora, nel senso che i contadini, o anche chi faceva parte di questo mondo, non aveva la disponibilità di cultura che invece i giovani oggi hanno, nel senso che uno un tempo poteva intuire cosa era l’Italia, poteva parlare per sentito dire, poteva avere una umanità personale per intuire certi concetti. Di fatto oggi invece i giovani hanno una cultura media superiore obbligatoria che li arricchisce. Dico questo: nel 1986 quando noi a Braccagni iniziammo a cantare di poesia, il poeta sembrava una figura quasi inarrivabile, e anche quando ti avvicinavi, l’approccio era quasi sempre negativo, ma non perché contesto questi personaggi, che sono personaggi favolosi, da fargli una statua in piazza a Grosseto, ci mancherebbe altro, il fatto è che loro non ti insegnavano a “dare di poesia” e ve lo posso garantire perché l’ho sperimentato sulla mia pelle. Invece Braccagni ha rotto questo sistema. Dò atto al Gruppo Tradizioni Popolari Galli Silvestro che noi cambiammo impostazioni; si disse che se non viene fuori qualche altro poeta, la squadra muore, e allora incominciammo a pensare “vediamo se a forza di improvvisare con gli altri vengono fuori i poeti” . L’esperienza parla che non è venuto fuori un poeta, qui sono venuti fuori decine di poeti, perché vi racconto una cosa. Una volta del ’90, s’era otto membri della squadra del maggio di Braccagni a Torre Molinos in un grattacielo; s’era otto briachi, perché eravamo briachi, però si fece cento persone: c’erano otto braccagnini che cantavano d’ottava rima quindi è vero che “ se non c’hai qualcosa di mamma” però è anche vero che con una cultura media, con l’impegno, con l’ascoltare, si creano i poeti. Questo è fondamentale ed il mio impegno personale, per quel poco di tempo che ho, per quello che posso capire, vi garantisco che Enrico Rustici è nato a Braccagni non a caso (intendo dire come poeta), ma la sua nascita altrove sarebbe stata posteriore, perché quella sera che lo presi da una parte (ed eravamo in forma anche quella sera, perché il vino da noi in Maremma è una benzina in più) e gli dissi “Amico, prova a cantare di poesia” e lui mi ricordo mi guardò, allora era piccino, bellino, ora con quei capelli corti non mi garba nemmeno tanto, insomma mi prese, mi guardò con quegli occhini come dire “Non ce la posso fare”. Bene, quell’anno lui fece il poeta del maggio.
Quindi il mio messaggio, con umiltà, nonostante quello che posso contare nel mondo tradizionale in quanto il mondo è quello imprenditoriale, è lì che sono impegnato, il mio messaggio è questo: tradizione vuol dire “tradeo” “portare avanti”, quindi bisogna levarsi da certe gelosie; il poeta è vero che è una bella figura, però è bella nel momento in cui si relaziona con gli altri. Quindi vecchie gelosie che ci sono state negli anni passati che ho vissuto non vanno bene. Certo, se poi uno è in quel modo di natura, se uno non è espressivo non è che deve essere obbligato ad essere espressivo. Per lo meno i giovani, lo dico sempre ad Enrico, “Enrico, insegna agli altri a canta’ di poesia”. Perché sono convinto che un ragazzo con cultura media e molta volontà, magari non sarà un poeta sopraffino dell’endecasillabo, ma in situazioni positive, magari allegre, canta di poesia.
Questa è la mia esperienza, quella che ho voluta portare qui stasera.







ENRICO RUSTICI


Vorrei dire due parole sulla poesia estemporanea: prima di tutto è vero, come diceva Pietro Pimpinelli, che non è così inscindibilmente legata al dono di natura. Il dono di natura è quello del ragionare, ma la natura ci ha dotato a tutti di un cervello, quindi siamo tutti in grado di ragionare; è un fatto culturale quello dell’utilizzare il cervello e di come si utilizza; ogni ambiente culturale ci indirizza poi nell’utilizzo delle nostre capacità intellettive e un ambiente come quello contadino, che ha ancora i proprio rami nella nostra società, un ambiente in cui il cervello, soprattutto nei momenti di vuoto (magari queste saranno cose risentite, comunque questo è mio come dice Guccini), lasciare dei momenti in cui si doveva trovare un faro, si doveva trovare un modo anche per interpretare il vissuto per celebrarlo in qualche modo; non doveva essere soltanto sudore e patimento e quindi ecco la matrice dell’importanza della poesia, l’importanza espressiva. Una tecnica quindi, una tecnica che aveva dei contenuti che derivavano dal vissuto.
La tecnica veniva data grazie alle motivazioni ma soprattutto grazie anche all’ascolto, quindi a tutti quei meccanismi puramente cognitivi sui quali ci sono abbondanti trattati. Quindi è importante come si riesce a trasmettere, come diceva Pietro, l’ottava rima, la tecnica dell’improvvisazione. Sta di fatto che Pietro mi prese una mano, mi disse “Te se scrivi qualcosa la devi anche cantare”. Io nemmeno lontanamente avevo mai cantato qualcosa di improvviso e mi ci ha portato grazie alla sua caparbietà, e alla caparbietà di persone come Edo Pettorali, che vedo tra i presenti e la cosa mi emoziona.
Poi trovo nell’ottava rima, nell’improvvisazione, un modo che ha l’essere umano in generale, l’arte in genere ma nell’improvvisazione in particolare, c’è una magia che è quella dell’utilizzo della parola collegato anche al ragionamento perché è vero, se ne può fare un mero uso di rime fine a se stesso, e semplice come per esempio: “io son qui a cantare/ di fronte a voi brave gente/ verso il tramonto c’è il mare/e ho tanta pace nella mente/”. Ho detto tutto e non ho detto niente. Fare la rima non è soltanto mettere le parole che suonano bene, è anche metterci dentro qualcosa, e questo utilizzare il cervello è una risposta importantissima, e questo è un appello accorato che fo a tutti quelli che ho davanti di qualunque età, una risposta ad una società che sempre di più ci vuole schiavi e controllabili, perchè noi dobbiamo essere controllati; chi è controllato, e controllato non significa soltanto fai questo e quello, significa darci quei pezzettini di contentino per tenerci buoni. In questo modo significa controllare. Chi è controllato in questa maniera alla fine abbassa anche la propria capacità intellettiva. Invece questi spunti di genuinità, questa capacità del parlare, che poi ci porta anche a sviscerare tematiche attuali, come la politica, come l’etica, perché noi si potrebbe cantare in ottava rima su qualsiasi argomento, pone l’individuo che di solito è fermo sulla poltrona davanti alla televisione, dove gli dicono “vota questo o quello”, di fronte al suo pensiero, alla sua realtà, perché noi siamo abituati a vivere in un mondo disegnato dai media, da quella che è l’informazione, siamo schiavi! Io penso che la televisione sia un male enorme della nostra vita, perché viviamo in un mondo che non c’è. Me ne sono accorto crescendo, quando ho conosciuto la realtà del lavoro.
Allora, dobbiamo reagire a questi pensieri che ci vogliono inculcare e secondo me questa formula espressiva dell’ottava rima e dell’improvvisazione che ci viene da un mondo che voleva dire la sua, che era il mondo molte volte degli oppressi nel lavoro o in quello che dovevano affrontare, ci passa in mano anche questa opportunità, quella di fermarsi un attimo. E’ come un ritorno mistico al passato, come la battaglia nel Fosso di Elm del Signore degli Anelli, dove ad un certo punto arriva Gandad con il bastone in mano e dice. “Eccomi, sono la luce!”. Ecco noi siamo in questa situazione qui, noi siamo nel Fosso di Elm.
Dal passato viene qualcosa, sta a noi invitarlo e tendergli la mano.
Avanti sempre così.



(mettere età?)

Francesco Cellini
Signori vi porgo il mio saluto
Felice so’ si di salutare
In questo giorno non posso star muto
E la poesia deve echeggiare
Che Enrico era bravo è risaputo
Insieme a Pietro la poesia mi hanno saputo insegnare
Ora davanti a tutti li scopro i sentimenti
Glieli fo’ a Enrico i miei complimenti.

Cecilia Rustici
Non siamo poi grandi talenti
Ma siamo anche qui noi a cantare
Vi saluti tutti brave genti
Grazie perché siete venuti qui ad arrivare
Ascoltate questi che sembran lamenti
È poco che provo ad improvvisare
Vi ringrazio di essere intervenuti
Ve li porgo io i miei saluti.

Donato De Acutis
Dall’Alto Lazio li porto i miei saluti
E a tutti quanti dò la buonasera
Ai conoscenti e ai meno conosciuti
Come si usava alla vecchia maniera
Poi poiché a cantare siamo venuti
Nel ricreare la giusta atmosfera
Nel ricantare questa ottava rima
Che qui a Braccagni tanto si sublima.

Irene Marconi
Chiedo scusa è poco più che la prima
Di quello che faccio in improvvisazione
Però vi voglio dire che la rima
La ritengo un’importante tradizione
Per cui questa serata si collima
Quella che per voi è una missione
E lavorate, lavorate duro
Perché è il passato che detta il futuro.

Enrico Rustici
Tremo dall’emozione e ve lo giuro
Dentro il mio petto c’è grande confusione
Ma un verso ce l’ho ancora nascituro
Per ringraziare tutte le persone
Questo giorno resterà scritto sul muro
Importante chi canta è l’audizione
Trema il cervello, trema le budella
Ho ricevuto il Premio Sentinella.



Benito Mastacchini
Io provo a salutarli i cittadini
Quelli del vicino e dell’intorno
E voglio dirli i miei confini
Io sono della provincia di Livorno
E mi chiamo Benito Mastacchini
Scuola non ebbi, fui disadorno
Ma ormai da Suvereto son venuto
E con sincero cuore vi saluto.

Artemio Melani
Io da un posto non lontano e astuto
E son della medesima provincia
Con il cuore e il canto vi saluto
E con amore intanto si incomincia
E per questo ritrovo compiaciuto
Dove un avvenir tanto si allincia
Grande la gloria, grande è l’armonia
Per il ritrovo della poesia.


LO SPETTACOLO

Lo Stornello

Dal pubblico viene dato un nome di persona su cui improvvisare: Pasqualina

Chechi
Oh Pasqualina
Siccome questa sera è nella zona
Siccome questa sera è nella zona
La invito a venirmi più vicina.
Burroni
Oh Pasqualina
Sei dolce come una meringa ripiena
Sei dolce come una meringa ripiena
Sei fresca come il vino di cantina
Rustici
Oh Pasqualina
Vediamo un po’ se lo stornello funziona
Vediamo un po’ se lo stornello funziona
Se vieni a fa’ un giro in cascina.
Chechi
Oh Pasqualina
Vorrei cantar per te con tanta lena
Vorrei cantar con re con tanta lena
La voce, il sentimento ci destina.
Burroni
Oh Pasqualina
Io ti canto ma tu sei lontana
Io ti canto ma tu sei lontana
Ma ora tu sei un po’ più vicina!
(avvicinandosi a Pasqualina)
Rustici
Oh Pasqualina
Io so un motore e so roba bona
Io so un motore e so roba bona
Ti chiedo se voi essere la benzina.
Chechi
Oh Pasqualina
Le rime vedi vengono a catena
Le rime vengono a catena
Perché sei il sol che sorge alla collina
Burroni (per dileggiare gli altri pretendenti)
Oh Pasqualina
Ma guarda questi due che fanno pena
Ma guarda questi due che fanno pena
So’ incontinenti, so’ sempre alla latrina.



La Terzina
Accompagnamento all’organetto di Donato De Acutis

De Acutis
E dopo lo stornello le terzina
E questo suono che dolce si emana
Dedicato a Sonia, Maria e Pasqualina
(le protagoniste degli stornelli precedenti)
Chechi
In questa nostra terra di Toscana
Se l’organetto un poco s’avvicina
Con le terzina la voce è lontana.
De Acutis
E chi fino da Roma si incammina
Questa gente poi quanta gioia emana
Ed è un piacere che sia qui vicina.
Chechi
Usanza antica, antica e molto sana
Se passo un’altra volta di destina
Vieni a portarcela qui in Toscana.
Elino Rossi
Sentito quanto è bella ‘sta terzina
Con l’armonica che poi la suona
Sarebbe da metterla in vetrina.
Chechi
Usanza certamente molto buona
Da portare in America o in Cina
La voce canta e l’organetto suona.
Rossi
E così si ottiene un risultato
Che tutti qui l’avete sentito
Quando il suono dell’organetto si è sprigionato.
Chechi
Da tutti certamente assai gradito
Da tutti certamente è molto amato
Vorrei che a noi Elino fosse unito.
Rossi
Scusate se io sono un po’ scordato
E certamente non sarò capito
Mi scuserete se male ho cantato.

Invito al poeta Edo Pettorali
Tra il pubblico era presente il poeta Edo Pettorali, che per tanti anni ha cantato con la squadra dei maggerini di Braccagni, al quale viene rivolto un invito a cantare.
Umberto Lozzi detto Volpino
Signori della corte a Casa al Pino
Che siamo qui presenti in questo piano
Altro mi resta che fargli l’inchino
Qui lo chiamo un amico, ‘un è lontano
È Edo Pettorali ed è vicino
E sarei pronto a dargli la mano
E con la luce lo guardo allo specchio
Lo invito a venire all’apparecchio.

Guarda non esser sordo da quell’orecchio
È tanto tempo che non ti ho ascoltato
Fammi un piacere e dico per espresso
E cantami un verso improvvisato
Non dire che sei fatto tanto vecchio
Ma di cervello sempre entusiasmato
E a questa grande e bella compagnia
Canta due versi in poesia.
Chechi-Noi ti vogliamo a farci compagnia
Rustici-Lo vedo Edo al palco si avvicina
Chechi-È una persona di gran cortesia
Rustici-La musa ancora qui ce lo destina
Chechi-È bene che Edo in mezzo a noi ci sia
Rustici-Lui è un poeta di stirpe maggerina
Chechi-Ai microfoni adesso hai accesso
E se non canti le mani ti battiam lo stesso.




Confronto poesia estemporanea - rap
Tema: Il rumore della città (rap Roby Rani, Tiziano Storti)
Il silenzio della campagna (poeti Francesco Cellini, Enrico Rustici)

Rustici:
Dal pubblico un tema ci è arrivato
Tipi così insieme non si erano mai visti
Un argomento viene contrastato
Dei silenziosi contro i casinisti
Io in campagna ci sono nato
Per me fanno casino anche i turisti
E te lo giuro sopporto di rumore
Quello della farfalla dentro al cuore.
Rani
Te lo dico con amore io son tranquillo
Magari se vieni a Ravenna fammi uno squillo
C’è del casino e c’è tanta donna
Ti garantisco che hanno pantaloni o gonna
Sono belle, hanno capelli lunghi
Mamma mia crescono come funghi
Porcini, prataioli, pure le sfiandrine
Devi vedere da noi che bambine.
Cellini
Il silenzio è fatto si di rime
Qui dove si affaccia alla campagna
Noi per le persone ce le abbiamo le stime
Qualunque sia la tradizione che le bagna
Siamo al vostro canto ‘si vicine
Qui dove l’acqua ristagna
A noi non ci piace tanto rumoreggiare
Ci da noia già sentire il cane abbaiare.
Storti
Caro fratello a noi piace rumoreggiare
Te lo diciamo sul più bello perché ci piace improvvisare
Francamente il silenzio non ci piace
Perché noi facciamo fuoco alla brace
Siamo poco, delle scintille
Che ne so, magari mille
Qualcosa che assomiglia magari a una bolla
E siamo come l’acqua siamo come una molla
Che schizziamo in alto in cielo
Siamo praticamente un velo
Non ci piace il silenzio
Lo riteniamo inutile
Siamo come una boa, siamo “…ile”
E certamente mi sono preso una rima difficile
E magari ho fatto qualcosa di impossibile
Ma quello che più ci piace fare veramente un po’ di casino
Te lo dico fratello te lo dico qua vicino
Se hai coraggio allora sfidami, fallo adesso
Guardami in faccia non sono certo un fesso.
Rustici
Se in un podere tu ce lo fai ingresso
Quando ci sono dei festeggiamenti
Tu appena te ne accorgi sull’accesso
Non ci sono solamente sfinimenti
Ora ‘un dico che ci sia ovunque sesso
Comunque ci sono godimenti
Lascia la città e vieni a questo confine
Tu sapessi come so le contadine.
Rani
Se ci pensiamo in effetti queste rime
Probabilmente voi avete belle contadine
Ma vi garantisco che se arrivo al podere
Le guardo negli occhi e le metto a sedere
Bastan due parole e non dico prole
Basta mostrare tutta la mia forza
E la mia scorza all’interno c’è il succo
Le guardo in faccia e le lascio di stucco
Serve poco, basta venire dalla città
Ascolta bene torna di là
La campagna che io apprezzo e rispetto
Mamma mia la prendo di petto
Anch’io in fondo sono nato in campagna
Ma in Emilia Romagna.
Cellini
La stessa pioggia a noi ci bagna
Diverso è il modo di parlare
Confine di Toscana, Emilia Romagna
Due ore so da viaggiare
Bene anche da noi lì si magna
Un piatto non lo potrei rifiutare
Al rumore gli posso da solo una scusa
Il bello è avere la stessa musa.
Storti
Come un marinaio dentro la cambusa
Adesso ti dico come nel rumore qua si usa
Il cuore certamente qui non si doma
Vengo dalla capitale che di nome fa Roma
Mio fratello qua vicino
È un tipo assai strano
Il mio nome è Tiziano
Lui a quattro mani
Invece si chiama Roby Rani
E noi facciam casino
Fin da quando eravamo piccoli
E quando viaggiavamo su certi trabiccoli
E quando facevamo casino in motorino
E quando fumavamo magari il sigarettino
Non posso dire la parola che viene dalla manna
Non posso dire la parola che si chiama canna
Ma ci piace parlare magari qua al verde
Acciaccare qua vicino quelle che si chiaman merde
Perché di tutto il resto certamente qua si fuma
E certo il fegato certo qua ti sgruma
Allora te lo dico con un certo accento
Del casino caro fratello certo non mi pento
E se magari tu vuoi convincermi del contrario
Fallo con le gobbe come un dromedario.
Rustici
Guarda che quel tuo posto straordinario
Che a tutti quanti qui hai disegnato
Non vale certo un prato sul binario
Che gli è un gioiello al mondo del creato
Abbiamo più forza noi di un dromedario
‘un te lo dico quello che s’è fumato
tutte le erbe si so digerite
s’arrotolava anche i tralci di vite.
Rani
Io ho ascoltato quelle cose che voi dite
E con rispetto
Mi comporto come Afrodite
Io mi inchino alla vostra religione
O meglio alla vostra passione
Voi credete in quello che fate
Ed è giusto, secondo me continuate
Avete questa cosa che è il popolare
Noi purtroppo siamo più in alto mare
È importante e mi inginocchio
E vi stringo come amico un occhio
Voi siete sicuramente più dietro
Avete un sacco da insegnarci anche San Pietro
Ma sono qui solo per imparare da voi
Quando volete bi aspettiamo noi.
(Rustici) Ancora battiti di mani per gli eroi
(Cellini) Finito abbiamo ormai cantare
(Storti) Sembriamo personaggi di un game boy
(Rani) Quello che ci accomuna sono le rime da amare
(Rustici) Ognuno poi c’ha gli strumenti suoi
(Cellini) Si diversificano da montagna a mare
(Rani) Sembro un regista, sembro Nanni Loy
come dice il proverbio moglie e buoi dei paesi tuoi.


La ballata del cantastorie

Francesco Burroni chiede al pubblico di raccontare un fatto successo nel proprio paese o città.
Marianna, una ragazza di Bologna, racconta che vicino a casa sua c’è una villa abbandonata da anni, avvolta nel mistero, nessuno ci vuole andare ad abitare perché coloro che la volevano prendere sono state vittime di episodi inquietanti. La villa si chiama Villa Clara e la leggenda parla di una bambina morta e murata in quella villa, dalla quale molto sostengono di avere visto aggirarsi un fantasma, luci che si accendono e spengono, strani rumori.

Mauro Chechi
Se attenti mi ascoltate o cittadini
Io di cantar stasera ho le pretese
Tendete a me gli orecchi qui vicini
Che c’è una signorina bolognese
Ed il suo nome (chiedendo il nome) Mariannna dico chi è
La storia bolognese saprete voi da me.
A Villa Clara lì presso Bologna
C’è una gran villa bella e da vicino
Di andarci lì nessuno se lo sogna
Quando ci passan lì fanno un inchino
E in quella villa dicon “non ci andrò”
Mi chiedon che è successo
Ve lo racconterò.
Ci stava lì una bimba poverina
Successe con il sole in una giornata
Qualcuno della villa la destina
La morte dentro lei viene murata
E da Marianna la storia qui si sa
Fatta di gran dolore, poca felicità.
Ritorno alla bambina lì murata
Lacrime piango nel narrare il fatto
‘na bimba veramente disgraziata
compiuto non avrà lei un gran misfatto
e poverina adesso è sempre lì
ci pensan le persone
narrando notte e dì.
S’andiamo a Bologna tutti insieme
Partiamo da Braccagni nell’estate
E dentro il cuore io ora c’ho la speme
Che quella grande villa visitate
E da Braccagni poi tutti andremo via
Entriamo in quella villa
Cantiamo in poesia.
Ma se la cosa è triste per davvero
Allora ricordando qui è opportuno
In quella grande villa del mistero
Certo che dentro non ci andrà nessuno.
Ma se la luce va via l’hai detto te
Allora ci andremo insieme
Insieme io e te.

Saluto dei poeti
Elino Rossi
Mi sembra ormai conclusa la serata
Mi sembra ci sia stata molta allegria
A rifarsi dalla tavola apparecchiata
E a quel punto la gente non è andata via
E allora questa bella e organizzata
Ritorniamo alla nostra poesia
E ognuno di avere dato quel contributo
A questo punto a tutti fo il saluto.
Alessandro Cellini
A tutti voi ora lo faccio un saluto
Di avere trascorso insieme questa sera
Abbiam mangiato insieme e abbiam bevuto
In questa notte di fine Primavera
Contento io so di essere venuto
Ho visto tradizione e arte vera
E in questa arena piena degli astanti
Un saluto caro a tutti quanti.
Umberto Lozzi
Sentito in giro musa con i canti
Sentito quanta gente e si è cantato
Ora farò un saluto a tutti quanti
Per ringrazià a voce il Comitato
E li rimedio i versi bernescanti
Vi dico che arcibene e ci so stato
Ed un saluto ve lo lascia Puntura
Per l’era presente e per quella futura.

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